Togli la maschera e vieni a tavola!
- R.Salemme
- 18 mag 2015
- Tempo di lettura: 3 min
L’interesse ossessionante per il cibo caratterizza la nostra epoca e si snoda mediante due atteggiamenti sintomatici che loquacemente trapassano anche nell’ambito semantico, veicolo a sua volta privilegiato di quello culturale. Percorrendo questa translatio ci ritroviamo da un lato, avviluppati dal turbinio del fast-food, magari etnico, che ci dispone sempre più spesso ad ingurgitare termini, pensieri e teorie di cui non conosciamo la provenienza, ignoriamo gli ingredienti e non consideriamo le ricadute sul nostro organismo; dall’altro ci attrae la flemma dello slow-food, magari a km 0, grazie al quale torniamo ad apprezzare idee e concetti più familiari, di cui abbiamo sempre sentito il profumo in casa, dei quali c’è sempre stato detto: “Mangia che ti fa bene!”.
Eppure, talvolta, sono proprio le parole che mastichiamo quotidianamente a perdere il gusto; le serviamo abitualmente e con meccanicismo stantio nel convivio della società, rassicurati sì dai significati sapidi di tradizione ma anche smaniosi, spesso, di rompere la monotonia della mensa, di cambiare menù. Un esempio? Persona.
Quanto spesso mettiamo in bocca questo termine? Quante volte cerchiamo di contornarlo diversamente perché ormai non se ne può più della stessa minestra? È forse scaduto? Tutt’altro! È un sostantivo oltremodo ghiotto, che racchiude innumerevoli proprietà: concediamoci il gusto di riscoprirle scorrendone l’explicatio termini, anzi -dato che a Milano c’è l’EXPO- consultiamo la lista degli ingredienti!
La definizione classica di persona è unanimemente ravvisata in Severino Boezio (†525). Filosofo cristiano ed esponente latino della lotta al monofisismo, egli sintetizzò la nozione di persona definendola: rationalis naturae individua substantia. Se, però, ad un primo impatto sembra di trovarci di fronte ad un termine home made conviene presto ricrederci considerando le assonanze che esso racchiude. Pur non limitandosi al significato teatrale del πρόσωπον greco, né dissolvendosi nel φersu dell’ancora misteriosa lingua etrusca, il termine non li ripugna anzi, insaporendosi tanto della οὐσία aristotelica, quanto di ciò che è percettibile allo sguardo nonché amplificatore del suono nel teatro mediterraneo, va a legarsi all’ingrediente dominante, rappresentato da Cristo. Si badi: non siamo né di fronte ad una metafora eucaristica, né di fronte a sfrenato devozionalismo. L’origine della definizione è infatti teologica: Boezio, servendosi delle categorie filosofiche d’importazione ellenica, fa esegesi del termine ὑπόστᾰσις con il quale il Concilio di Calcedonia (451 d.C.) illustra il dogma cristologico, distanziandosi tanto da Eutiche quanto da Nestorio, riconoscendo in Gesù Cristo la congiunzione ipostatica (in una persona) di due nature, quella divina e quella umana. Così, quel termine che nel linguaggio scenico indicava la maschera, che oltre ad identificare il personaggio fisso del dramma consentiva all’attore d’aver la voce amplificata (per-sonare); quel termine che indicava tutto ciò che dell’uomo fosse all’occhio percettibile, che per la prima volta dava un riconoscimento etico alla personalità individuale grazie al suo utilizzo degli stoici in Grecia e di Cicerone a Roma, veniva a mantecarsi con le più raffinate categorie culturali sposate dall’incipiente dogmatica cristiana.
Siamo di fronte ad un minestrone? Nient’affatto! La pietanza servita è raffinata, non mittendus canibus verrebbe da dire, è apprezzabile appieno solo da palati istruiti a farlo perché, come se non bastasse, mani esperte nel corso del tempo hanno provveduto ad insaporirla e ad impreziosire, con la sua presenza, altre tavole concettuali che venivano così a proporre la persona vero piatto forte, in forza del quale tutto il menù prende consistenza: la filosofia, il diritto nelle sue materie civilistiche e canonistiche, l’economia e la medicina, senza dimenticare Dio stesso, dagli inizi e tutt’oggi investigato e conosciuto mediante questa categoria.
Star attenti, però, è d’obbligo: come esistono i falsi alimentari, così si svilupparono e si sviluppano i falsi concettuali. Cambiate le categorie di riferimento, alterati gli ingredienti, l’evo moderno si ritrovò a chiamar persona ciò che di persona non aveva il sapore, invitando così correnti di pensiero, ordinamenti giuridici e posizioni esistenziali ad un banchetto dove oggi si continua a proporre qualcosa d’esuberato, di cui tutti son nauseati.
Ma ci si può davvero far rubare in casa la ricetta della persona? Si può continuare a condannare questa pietanza solo perché abbiamo dovuto rimandarla troppe volte in cucina, per colpa dei cuochi di turno? No! È anzi qui che nasce la sfida: grembiuli indosso e mani in pasta, occorre sfornare persone vere, persone degne di questo nome; perché troppo spesso altri cuochi sembrano dimenticare gli ingredienti fondamentali, non seguendo le tappe della preparazione che l’evoluzione concettuale storica addita ed ignorandone anche il tocco segreto che non ci stancheremo però mai di rivelare: l’immagine e somiglianza.
È con quest’auspicio che VPL propone un numero tutto centrato sul tema: per ricordare che nulla può essere estraneo alla persona, che nessuna tematica può esser affrontata in maniera depersonalizzante, che nessun interesse può avanzare preminenza di fronte a tanta nobiltà di contenuto: la razionalità ben formata, in una natura definita di un’individualità irripetibile che partecipa della vita di Dio: agapica, eterna sostanza.
Rocco Salemme
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