Presepe ed albero nel romano Occidente, ma cosa resta nell’apostolico Oriente? Una scorrevole inda
- R.Salemme
- 15 dic 2014
- Tempo di lettura: 4 min
Presepe ed albero nel romano Occidente, ma cosa resta nell’apostolico Oriente?
Una scorrevole indagine sulla situazione ecclesiale delle regioni in cui Tutto è nato.
Seppur dopo il felice esperimento francescano, Greccio resti il riferimento più lampante nell’immaginario collettivo natalizio, non sarebbe poi così inopportuno -specie in questo periodo dell’anno- maturare delle considerazioni geograficamente più corrette che ci permetterebbero senz’altro una comprensione più completa dell’evento cristiano: del Totaliter Aliter che, com-mosso dall’umanità, in propria venit (Gv I, 11). Sia chiaro: non si tratta di muovere una crociata contro muschio, pastori appenninici e zampognari, bensì di gettare uno sguardo sui luoghi dell’Incarnazione dove la Radix Iesse, alla quale siamo innestati (Rm XI, 16), ha affondato. Le già non poche miglia percorse dal Maestro di Nazareth, che ebbe come campo d’azione l’esodica terra fluentem lacte et melle, al cui baricentro rifulge la città santa, verranno ripercorse nonché esponenzialmente e sistematicamente moltiplicate dagli apostoli e dai discepoli, la missione dei quali è soventemente stigmatizzata da san Luca nei sommari della sua seconda opera, oltre che attestata da numerose testimonianze archeologiche.
Tuttavia lo Spirito Santo, vero soggetto del crescere e del diffondersi della Parola di Dio (At XII, 24), guidava tanto i viaggi di san Paolo, quanto lo stazionare di san Giacomo in Gerusalemme; accompagnava la missione di san Filippo e quella di san Tommaso, tanto quanto la travagliata reclusione carceraria di san Pietro. Coscienti di ciò, andrebbe di sicuro debitamente considerato nelle sue dimensioni deflagranti il fenomeno d’evangelizzazione in uscita che la Pentecoste ha acceso, ma anche onestamente riconosciuto il lento filtrare della linfa cristiana nella religione, nella regione e nella cultura giudaiche. Qualora infatti ci si ammalasse d’estroflessione, arrivando a pensare che il cristianesimo si sia archetipicamente strutturato unicamente come movimento centrifugo, risulterebbe alquanto difficoltoso decifrare la faticosa evangelizzazione ad intra nelle stesse regioni percorse dal Figlio di Dio, che portarono alla luce il fenomeno tanto importante quanto complesso del giudeo-cristianesimo. La vocazione all’evangelizzazione e quella all’inculturazione pertanto, che nel corso del II sec p.C. ebbero come volàno il carisma degli apostoli e come primo canale le arterie dell’impero romano, non possono darsi l’una senza l’altra. Χριστὸς ἐγήγερται ἐκ νεκρῶν (ICor XV, 20) il cuore del kèrygma solcava il mediterraneo e ne lambiva le coste: al suo risuonare la cultura ellenistica spalancava le porte, il panlogismo filosofico cedeva il passo, persino Roma alfine ripose la spada; un’onesta memoria storica ha saputo e sa continuare a riconoscere, oltre alle turpi mancanze, i mirabilia che la fede cristiana instillava nel cuore degli uomini ormai rapiti dall’ideale della christianitas. Ma non volendo indugiare oltre in una melliflua malinconia letteraria, proviamo a consultare una carta demografica religionistica, oppure connettiamoci ad un motore di ricerca; volgiamo lo sguardo sui quotidiani, scorriamo tra le riga di qualche rivista, proviamo ad ascoltare un telegiornale: quanto e cosa rimane della vineam Domini, della terra anelata dai profeti? Dei viaggi paolini, quale mete ci restano? E ancora: a chi parlerebbe oggi l’angelo delle sette chiese apocalittiche? A quale Pentarchia possiamo oggi riferirci? Chi ha fagocitato l’azione pastorale di Agostino, dei Cappadoci o di Atanasio?
Naturalmente non possiamo ingenuamente limitarci ad asserire che quanto non riuscirono ad ottenere le persecuzioni romane, lo jihād s’adoperò alacremente a perseguire; pertanto senza impantanarci negli acquitrini del colpevolismo o nelle paludi dello storicismo condannante, veniamo a considerare lo status di alcuni nostri fratelli che faticosamente vivono la loro fede nelle alle cattedre apostoliche.
Stiamo facendo riferimento alle chiese particolari che sono definite sui iuris o più comunemente “Chiese Orientali”; pienamente nel seno della santa Chiesa Cattolica, la loro differenziazione nei confronti della Chiesa Latina, che però non mina in alcun modo la comunione delle stesse, fa forza sulla peculiarità di poter vantare tanto una disciplina sacramentale (che prende forma nella ricchissima polimorfia rituale) quanto una legislazione canonica (CCEO) proprie ed autorevoli, afferenti a precipue tradizioni teologiche mai in conflitto con quella latina. Sono esse che, assieme alla Chiesa Latina, formano l’unica Chiesa Cattolica, le quali, da non confondersi con la Chiesa Ortodossa -esulante dalla comunione Cattolica dal 1054- sono attualmente 24 e si riferiscono direttamente ad un rito che affonda in cinque tradizioni principali: Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana. Tutte, ciascuna e distintamente le Chiese Orientali, sono cœtus christifidelium, radunati da una propria gerarchia che fa capo alla Suprema autorità, che, incalzati da svariate vicende storiche, cesseranno di essere meramente portiones Populi Dei afferenti ad un criterio ricognitivo nominale e strettamente territoriale aprendosi al principio della personalità più direttamente legato alla koinonìa ecclesiale, che nel donum unitatis divinamente rifulge. Tuttavia l’originario legame regionale resta lì, testimone perenne della memoria confessionale e custode dell’identità cristiana che ha profondamente solcato quelle terre: terre dei santi apostoli, terre di molti padri della Chiesa, terre di antichi e nuovi martiri.
Verrebbe da chiedersi allora, come d’usanza tra familiari, specie in questo tempo natalizio: la Chiesa cattolica Sira, custode della conversione paolina in Damasco, come sta? La Chiesa cattolica Caldea, reduce dal traviamento nestoriano, cos’ha da dirci? La situazione della Chiesa cattolica Copta, come ci interpella? Spesso, purtroppo, le risposte a queste domande non possono che essere dolorose e macchiate dal sangue dei martiri, che continua a scorrere anche nelle pieghe della storia contemporanea dalla quale troppo spesso ritraiamo lo sguardo. Ma nel ritrovarci nuovamente di fronte alla Greppia, quest’anno, ricordiamoci di questi nostri fratelli che sono più vicini all’apocalittica tribulatione magna, lasciamoci interpellare dalle loro sofferenze e proviamo a sentire anche nostre le loro ansie torve; di sicuro questo sarà sprone confirmatorio per nostra fede che ci attesta lo stesso Figlio indifeso di Maria come vincitore della morte, che anche oggi ci dice: “Etiam, venio cito”. Veni, Domine Iesu, Maranathà: ma fino ad allora? Sit Sanguinis martyrum, semen christianorum!
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